Sintesi: Il rapporto di lavoro del dipendente pubblico è caratterizzato dal principio dell’esclusività. L’unico temperamento è costituito dalle disposizioni contenute nella Legge 662/96, laddove viene consentito ai dipendenti pubblici, con rapporto di lavoro part-time non superiore al 50%, di svolgere attività libero-professionale ed attività di lavoro subordinato o autonomo. La valutazione dell’esistenza di un eventuale conflitto di interessi è operata dalle Amministrazioni.

Per i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa posti in essere dalle Amministrazioni pubbliche, stante la formulazione dell’articolo 7, comma 6, del D.Lgs. 165/2001, nonché la disposizione per gli Enti locali di cui all’articolo 110, comma 6, del D.Lgs. 267/00, deve ritenersi che si tratti di posizioni la cui prestazione è caratterizzata dall’autonomia della prestazione. L’attività in questione dovrà essere tale da eccedere le ordinarie competenze dei dipendenti, oppure avere come presupposto essenziale la carenza oggettiva di determinate figure professionali all’interno dell’Amministrazione stessa

 

 

 

Ufficio per il personale

delle pubbliche amministrazioni

Servizio per il trattamento del personale

 

Parere n.182/03                                                                     Roma, 18 novembre 2003

 

                                                                                    Alla Provincia di Modena

Area risorse umane, organizzazione, informatica e affari generali

Viale Martiri della Libertà n. 34

 

41100 MODENA

 

 

 

OGGETTO: Incarico di collaborazione coordinata e continuativa a dipendente pubblico.

 

 

 

            Si risponde al quesito posto da codesta Amministrazione circa la possibilità che ad un dipendente con rapporto di lavoro a tempo pieno venga affidato un incarico in qualità di collaboratore coordinato e continuativo da altra amministrazione o da un datore di lavoro privato.

 

            Al riguardo si ricordano alcune considerazioni in tema di esclusività delle prestazioni dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, peraltro già svolte in occasione di altri pareri resi dallo scrivente, che consentono un approccio sistematico al problema, anche al fine di rispondere a numerosi quesiti posti da altre pubbliche amministrazioni sul medesimo tema.

 

Come noto il legislatore costituzionale ha posto, fra i diversi principi a tutela dell’interesse pubblico, che deve essere costantemente perseguito dalla pubblica amministrazione, quello del dovere di esclusività delle prestazioni dei propri dipendenti, nel senso dell’inconciliabilità tra l’impiego presso l’amministrazione pubblica ed il contestuale svolgimento di altre attività lavorative. Dalla disposizione costituzionale contenuta nell’articolo 98, ai successivi interventi legislativi sulla materia, confluiti nell’articolo 53 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, il principio è stato generalmente riconfermato e, fatti salvi taluni regimi speciali, il sistema costruito negli anni è comunemente considerato un sistema assoluto, anche in considerazione del fatto che la giurisprudenza ha sempre attribuito alle norme in materia, dettate dal D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, il carattere di principi generali applicabili nell’ambito del pubblico impiego in assenza di disposizioni speciali regolanti lo specifico ambito. Infatti l’articolo 2 comma 1, lett. c), n. 7, della legge 23

ottobre 1992, n. 421, recante delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle disciplina in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale, in base alla quale è stato emanato il decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, ha annoverato il principio di esclusività dell’impiego pubblico tra le materie coperte da riserva di legge e lo ha sottratto alla disciplina di fonte contrattuale. Il decreto legislativo n. 29 del 1993 ne ha ulteriormente esteso l’ambito di applicazione ad opera dell’articolo 58, come successivamente modificato ed integrato fino alla versione attualmente vigente confluita nell’articolo 53 del decreto legislativo 165 del 2001.

            Sulla base di tali considerazioni e, principalmente, della riserva legislativa che opera su tale materia, allo stato della vigente normazione l’unico temperamento del principio di esclusività risulta dalle disposizioni contenute nella legge 23 dicembre 1996, n. 662, recante misure di razionalizzazione della finanza pubblica, laddove, all’art. 1, commi 56 e seguenti, viene consentito ai dipendenti pubblici con prestazione di lavoro part-time non superiore al 50% di quella a tempo pieno di svolgere attività libero-professionale ed attività di lavoro subordinato o autonomo. In tali ipotesi, pertanto, il cumulo di rapporto viene legislativamente consentito con il solo limite della valutazione, ad opera dell’amministrazione di appartenenza, circa la sussistenza di un eventuale conflitto di interessi con la specifica attività di servizio svolta dal dipendente. La medesima legge ha, inoltre, previsto che le amministrazioni provvedano, con decreto del Ministro, di concerto con il Ministro per la funzione pubblica, ad indicare le attività che, in ragione della interferenza con i compiti istituzionali, risultino comunque non consentite ai dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale non superiore al 50% (si veda regime particolare per gli enti locali di cui all’art. 58-bis).

            Al riguardo recentemente la Corte Costituzionale (si veda la pronuncia n. 189 del 2001), nel giudizio di costituzionalità dell’articolo 1, commi 56 e 56-bis della legge n. 662 del 1996, promosso dal Consiglio Nazionale Forense, ha affermato che il legislatore ha posto in essere un sistema di cautele idoneo ad evitare situazioni di incompatibilità per i dipendenti in regime di tempo parziale, prescrivendo che le amministrazioni individuino le attività non consentite e ponendo, pertanto, rigorosi limiti all’esercizio di ulteriori attività lavorative.

 

            Per individuare i limiti utili alla valutazione che il datore di lavoro pubblico deve compiere nel considerare la possibilità di autorizzare attività extra officio dei propri dipendenti, come previsto dall’articolo 53 citato, occorre fare riferimento, in primo luogo, alle finalità proprie delle disposizioni in tema di esclusività del rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione e del conseguente regime delle incompatibilità, che consistono nella traduzione sul piano concreto del principio di buon andamento dell’articolo 97 della Costituzione, impedendo, nella pratica, l’assunzione di attività lavorative concorrenti. A tal fine, quindi, si dovrà tener conto del fatto che non si verifichino situazioni di conflitto di interessi con le attività svolte nell’ambito del rapporto d’impiego con l’amministrazione, che non si vengano a determinare vantaggi per sé od altri nell’esercitare le attività ulteriori sfruttando la qualità di dipendente della pubblica amministrazione, che vengano salvaguardate le energie lavorative del dipendente a favore dell’ente di appartenenza, in funzione di dover assicurare, da parte di questi, il miglior rendimento nei confronti dell’amministrazione dalla quale dipende (Cons. Stato, Sez. V, 13 gennaio 1999, n. 24).

            Tali valutazioni dovranno aggiungersi a quelle scaturenti dalle disposizioni degli articoli 59 e seguenti del DPR n. 3 del 1957 dalle quali emerge chiara l’incompatibilità del rapporto di lavoro a tempo pieno con la pubblica amministrazione con la contestuale titolarità di altro impiego privato quando questo rivesta i caratteri della continuità e della professionalità, intendendo, per tale, un’attività che sia prevalente rispetto alle altre, nonché direttamente ed adeguatamente lucrativa (si veda in proposito Corte dei Conti, Sez. Contr., De. n. 1450 del 21 maggio 1984).

            Inoltre, in considerazione della avvenuta privatizzazione del rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, debbono venire in considerazione anche gli obblighi di fedeltà e di non concorrenza sanciti dall’art. 2105 del codice civile, in quanto applicabili all’impiego presso pubbliche amministrazioni per effetto della generale disciplina di cui all’art. 2, comma 2, del citato decreto legislativo n. 165/2001. Tali principi vincoleranno, comunque, il dipendente anche qualora lo stesso venga autorizzato allo svolgimento di prestazioni a favore di terzi.

 

            Venendo, ora, ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, occorre valutare attentamente le caratteristiche che rendono, in generale, possibile il ricorso, da parte delle pubbliche amministrazioni, a tali tipologie di prestazione lavorativa. Infatti, stante la formulazione stringente dell’articolo 7, comma 6, del decreto legislativo n. 165/2001, come, ancor più, la disposizione recata, per gli enti locali, dall’art. 110, comma 6, del già citato decreto legislativo n. 267/2000, deve ritenersi che si tratti di posizioni la cui prestazione debba caratterizzarsi più per l’autonomia di svolgimento, che per la subordinazione della prestazione stessa, poiché, trattandosi di figure dotate di elevata professionalità, un rapporto di lavoro più prossimo, per intrinseci caratteri di configurazione, alla subordinazione violerebbe, di fatto, le norme sull’accesso al lavoro nella pubblica amministrazione e, nel contempo, il principio di esclusività del rapporto in atto con l’amministrazione. Infatti nel consentire alle pubbliche amministrazioni l’utilizzazione di rapporti di lavoro diversi dal tradizionale rapporto di lavoro subordinato, analogamente alle facoltà costitutive riconosciute al privato datore di lavoro, è imposto anche un preciso limite, che la consolidata giurisprudenza della Corte dei Conti ha inteso individuare nella impossibilità di affidare, mediante rapporti di collaborazione, i medesimi compiti che sono svolti dai dipendenti dell’amministrazione (non è un caso, a tal riguardo, che il citato art. 7, comma 6, del d. lgs. n. 165/2001, abbia subordinato la facoltà, per l’amministrazione, di avvalersi di tale tipologia di rapporti limitatamente all’ipotesi di “…esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio”). Pertanto, l’attività in questione dovrà essere tale, quanto a caratteristiche e contenuti professionali, da eccedere le ordinarie competenze dei propri dipendenti, oppure non deve potersi svolgere per carenza oggettiva, assoluta o relativa, di determinate figure professionali, presupposti che costituiscono la motivazione del provvedimento amministrativo di conferimento di incarico all’esterno.

 

Come noto il rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, non trovando una definizione specifica nel codice civile, viene ricondotto genericamente all’articolo 2222 e seguenti del codice civile che disciplina il rapporto di lavoro autonomo e il contratto d’opera e all’articolo 2096 e seguenti del codice civile che regolamenta il rapporto di lavoro dipendente. Da tale disposto deriva l’orientamento che avvicina il rapporto di collaborazione coordinata e continuativa al contratto d’opera, pur non esistendo, nel predetto art. 2222 c.c., una esplicita menzione. L’altra fonte normativa che soccorre in materia di collaborazioni coordinate e continuative è l’art. 409, n. 3, del codice di procedura civile, il quale ha esteso la disciplina delle controversie individuali di lavoro ai rapporti di agenzia, di rappresentanza commerciale nonché ad altri rapporti di collaborazione “che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata e prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato….”. Dalla lettura dell’articolo 409 del c.p.c. si possono individuare i tre aspetti peculiari che caratterizzano il rapporto di collaborazione cooordinata e continuativa, che, in sintesi, possono così evidenziarsi:

* continuatività, in contrapposizione alla occasionalità,  quale prestazione che si protrae nel tempo e la cui durata deve essere definita in sede negoziale;

* coordinazione, che secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione è costituita dal vincolo funzionale tra l’opera del collaboratore e l’attività del committente e comporta una stretta connessione con le finalità di quest’ultimo ;

* prestazione prevalentemente personale, in virtù della quale il ricorso a propri collaboratori risulta decisamente limitato.

 

Ai fini che qui interessano rileva anche la definizione normativa contenuta nell’art. 47, lett.c-bis, del TUIR, che indica la prestazione di collaborazione coordinata e continuativa, nella specie:

“A favore di un determinato soggetto, nel quadro di un rapporto unitario, con retribuzione periodica prestabilita”.

            Tuttavia quasi tutti gli elementi enunciati dalla normativa di riferimento per l’individuazione dei rapporti di lavoro subordinato o di collaborazione coordinata e continuativa sono comuni anche ai rapporti di lavoro subordinato e, pertanto, non possono essere utilizzati come indici rivelatori della sussistenza o meno di un rapporto di lavoro subordinato piuttosto che di un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa.

Il vero criterio distintivo potrebbe essere individuato nella mancanza del vincolo di subordinazione, come desumibile dalla lettura degli articoli  2094, 2086 e 2014 del codice civile. In tali disposizioni la dipendenza del lavoratore subordinato dal proprio datore di lavoro assume un ruolo primario. Le norme fanno espresso riferimento ad una subordinazione gerarchica, che, per sua natura, rappresenta un vincolo strettamente personale che si riflette, nella normalità dei casi, in una limitazione della sfera di azione del lavoratore. Si tratta, quindi, di una limitazione al potere decisionale, organizzativo, di scelta, etc., del lavoratore subordinato in ordine all’attività dallo stesso svolta nell’ambito della realtà operativa in cui è inserito, che si manifesta attraverso le imposizioni fissate dal datore di lavoro che riguardano diversi aspetti della prestazione lavorativa: determinazione dell’orario di lavoro, modalità di esecuzione della prestazione, controllo del rispetto delle regole impartite, comminazione di sanzioni disciplinari, etc..

In assenza di tali criteri si sarà in presenza di un rapporto di lavoro autonomo, il cui titolare presta la propria opera senza vincolo di subordinazione. Ciò significa che il collaboratore non deve essere in alcun modo limitato nel proprio potere decisionale in ordine alla esecuzione del servizio prestato, sebbene il committente non possa essere totalmente estromesso da qualsiasi scelta che riguardi l’esecuzione dell’opera o del servizio pattuito. Il committente potrà, pertanto, verificare e controllare le modalità di esecuzione del lavoro affidato, ma solo al fine di accertare la perfetta corrispondenza del risultato a quanto richiesto e la sua funzionalità rispetto agli obiettivi prefissati.

Relativamente alle richieste di parere sull’applicabilità del decreto legislativo n. 276 del 2003 alle Pubbliche Amministrazioni in materia di lavoro a progetto si rappresenta quanto segue.

La nuova tipologia del “lavoro a progetto” sembra, nell’intenzione del legislatore, dover impedire l’utilizzo improprio dei rapporti di “parasubordinazione”; tuttavia l’esclusione dell’applicabilità della  nuova normativa alle pubbliche amministrazioni, lascia attualmente inalterato, per queste ultime, il sistema delle collaborazioni coordinate e continuative e la relativa disciplina limitata alle norme processuali, all’articolo 2113 del codice civile, alle disposizioni contenute nel Tuir, nonché alle prescrizioni previdenziali e di tutela assicurativa.

Secondo la nuova configurazione legislativa, pertanto, il lavoro a progetto può definirsi quale rapporto di collaborazione (avente le stesse caratteristiche della collaborazione coordinata e continuativa) da ricondursi alla fattispecie dell’esecuzione di determinati progetti specifici, ovvero di appositi programmi di lavoro o di determinate fasi di lavoro, predisposti dal committente, ma gestiti in completa autonomia da parte del lavoratore con finalità di risultato, rispettando il coordinamento con l’organizzazione del committente, ma senza vincoli di subordinazione, con lavoro esclusivamente o prevalentemente proprio, previo accordo con il committente circa le modalità di esecuzione e durata. La mancanza di un progetto da conseguire, di un programma da realizzare o di una fase di lavoro da espletare, qualifica il contratto, per l’impresa privata, come rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e, a parere dello scrivente, non legittimo rispetto alle esigenze dell’amministrazione che lo ha attivato e in relazione a quanto sopra rappresentato in materia di incompatibilità.

           

            Venendo alla natura della prestazione, in relazione al quesito posto, occorre valutare i singoli elementi che la costituiscono. Da tale riflessione, infatti, emerge come la realizzazione di un programma, di un progetto o di una sua fase, rispetto alla quale il prestatore si obbliga a conseguire il risultato pattuito, comporta, generalmente, un impegno rilevante se caratterizzato dalla continuità dell’azione e, quindi, con conseguente sensibile sottrazione di energie lavorative all’attività che il dipendente della pubblica amministrazione deve rendere, con carattere di esclusività, a favore del suo datore di lavoro, tale da far supporre che possa risultare prevalente rispetto a quest’ultima o, comunque, di tale intensità, quanto ad impegno profuso ed energie dedicate, da apparire inconciliabile con le obbligazioni dedotte nell’ambito del rapporto di lavoro in atto con l’amministrazione. Anche l’aspetto economico deve risultare attentamente monitorato, in quanto un tale impegno dovrà risultare adeguatamente remunerato, venendosi, così, a realizzare un ulteriore elemento paradigmatico tra quelli individuati, dalla Corte dei Conti, come sintomatico della situazione di incompatibilità. Infine onde evitare la costituzione di rapporti, in realtà, di tipo subordinato risulta particolarmente importante riuscire a definire, con precisione, la tipologie di rapporto che si viene ad instaurare. Il punto di partenza può ritenersi quello della qualificazione che le parti intendono attribuire al rapporto giuridico tra di esse sorto. Tuttavia, se ciò appare corretto in ossequio al principio dell’affidamento che le parti ripongono nelle rispettive manifestazioni di volontà, è altrettanto vero che il nomen iuris dalle stesse attribuito alla relazione contrattuale potrebbe non essere sufficiente al fine di individuare il rapporto effettivamente instaurato. Pertanto sembra necessario esaminare, in concreto, come tale rapporto si svolge, onde individuare la presenza delle caratteristiche sopra evidenziate. In tal senso può soccorrere la giurisprudenza della Corte di Cassazione, la quale è intervenuta, tra le tante, con la sentenza n. 63 del 1999, nella quale sono contenuti indici per l’individuazione della natura subordinata della prestazione.

 

 

 

                                                                                                Il Direttore dell’Ufficio

                                                                                                   Francesco Verbaro