Nazionale

Lunedì 13 Agosto 2001

INTERVISTA AL SOTTOSEGRETARIO CURSI
«Riconvertire i doppioni in strutture d’eccellenza»

di SARINA BIRAGHI

ROMA - Terzo millennio, una nuova èra anche per la sanità. O, meglio, una nuova cultura che si allontana sempre di più dall’ottica dei campanilismi e delle tessere di partito e punta decisamente all’efficienza e alla qualità. Un cambiamento di cui è fermamente convinto il sottosegretario del ministero della Salute, non più della Sanità, Cesare Cursi, onorevole di An, già assessore alle Attività produttive della Provincia di Roma.
Quindi condivide il «Sirchia-pensiero» chiudere, cioè, 900 ospedali italiani?
«Sinceramente non so se sono 900 o 800, certo però che occorre puntare alla razionalizzazione delle strutture sanitarie. In questi anni abbiamo messo in piedi strutture ospedaliere che hanno risentito più delle spinte localistiche che delle reali esigenze dei cittadini e, quindi, strutture mai corrispondenti ad un piano ragionato».
Ma la gente vuole l’ospedale in paese...
«Non è più così. Oggi i cittadini si rendono conto che i piccoli ospedali non corrispondono all’esigenza di prestazioni e servizi di qualità oggettivamente comprovati, tanto è vero che di fronte le difficoltà gli ospedali trasferiscono e la gente sceglie i grandi nosocomi».
La ricetta?
«Per evitare doppioni o sprechi, dobbiamo trasformare le strutture in ospedali di eccellenza che così diventano centri di riferimento per patologie precise, dall’oncologia alla riabilitazione. In questo modo anche i territori si valorizzano per la presenza di questo tipo di strutture. Naturalmente questo schema andrebbe portato in tutte le regioni».
E da romano, il sottosegretario non può non fare riferimento al S. Filippo Neri e S. Camillo che sono poli di cardiochirurgia, al S. Raffaele e al Sant’Andrea, poli oncologici, strutture che vedono la presenza massiccia non soltanto di malati del Lazio, ma anche dal Sud dell’Italia.
Non basta il taglio dei posti letto?
«No perché è cambiato il profilo dei ricoverati. Ci sono 12 milioni di italiani che hanno superato i 60 e così non c’è più il malato acuto ma quello cronico che ha bisogno non di un letto ospedaliero ma di strutture di assistenza sul territorio. Bisogna pensare alla prevenzione, alla casa famiglia, al buono, all’assistenza domiciliare, tutto evitando ricoveri impropri.
Chi è passato per la sanità, si è sempre lamentato per la carenza di fondi
«Anche qui si cambia cultura: amministratori e cittadini devono sapere che non si può spendere inutilmente. È certo che il Governo mette 140 mila miliardi e le regioni devono avere uscite certe, senza sprechi».
La devolution migliorerà il sistema sanitario?
«Lo farà certamente ma ad una condizione: il Servizio sanitario nazionale deve continuare a garantire l’assistenza per tutti, senza differenze. Poi ogni regione, responsabilmente, non dovrà più sforare il budget sanitario, gli stessi direttori generali e manager di Asl non pagando più a piè di lista ma dovendo presentare un bilancio, devono gestire aziendalmente le Asl e gli ospedali, raggiungendo gli obiettivi».
Le linee guida del ministero sono condivise?
«Le abbiamo appena presentate con il ministro Sirchia a Camera e Senato. Oltre alla maggioranza c’è l’adesione anche dell’opposizione, che ragionevolmente condivide l’obiettivo di ridimensionare la spesa».
Altri obiettivi?
«Sicuramente il rilancio della ricerca con nuovi investimenti che daranno occupazione. Questo presuppone un rapporto corretto con Farmindustria che vorrebbe fare investimenti sul territorio ma chiede strumenti adeguati».
Due emergenze: infermieri e sangue.
«C’è una carenza di infermieri che va dalle 40 alle 100 mila unità. Il ricorso agli extracomunitari è un palliativo. Vanno potenziati e promossi i corsi di formazione, ormai una laurea breve, ma va adeguato il trattamento economico. Per il sangue non siamo un Paese autosufficiente e per questo, a settembre, lanceremo una grande campagna informativa sui mass media per far sì che la maggior parte dei cittadini diventino donatori».